Questo romanzo, libero sfogo di paranoie contemporanee, ti farà vivere un’avventura indimenticabile, divertente ma anche riflessiva, in una Milano, in una Milan City, come non l’hai mai vista.
A Milan City, un ragazzo ha appena commesso un tragico errore.
Con lui ci sono il Jack, clone di Jack Nicholson, ammanettato e sempre con una parola gentile tra le labbra, e il Sassofonista, jazzista sovrappeso, che si è appena inguaiato con Serena, una bambola di plastica senza volto che non vede l’ora di farsi sposare. I nostri quattro anti-eroi, emarginati, senza arte nè parte, si illudono che tutto andrà per il meglio, ma non sanno che, nel bagagliaio della loro auto rubata, si nasconde la cosa più meravigliosa del mondo e i guai non tarderanno ad arrivare.
Procedendo al “rallentatore” dovranno sopravvivere in una Milano stralunata e delirante, ribattezzata “Milan City” dall’onnipresente Presindaco della città, e tirarsi fuori da una girandola di personaggi bizzarri e situazioni al limite dell’assurdo: distributori di benzina assediati da consulenti finanziari; biblioteche sepolte nei tunnel della metropolitana; milanesi rampanti che lavorano 20 ore al giorno e non sanno dove parcheggiare; pubblicità non stop; tifosi interisti relegati nella sfortunata Inter City, la città cugina dove il caos regna sovrano e i treni viaggiano con un ritardo di due giorni, un’ora e quarantasei minuti.
Questo romanzo è un assolo di sassofono, leggero, sanguigno, fuori dal coro.
Inizia così
Eravamo Io, il Sassofonista e il Jack, a bordo di una Volvo nera e sporca di fango. Io guidavo al rallentatore. Il Sassofonista sedeva dietro, in mezzo, con la grossa testa incastrata nei poggiatesta. Il Jack occupava con la consueta aria ripugnata il posto accanto al mio, e teneva le manette bene in vista, incollate al cruscotto. La Volvo non era mia e non era nemmeno dei miei genitori. L’avevamo rubata.
Il Sassofonista era un bel ragazzo panciuto, portava i capelli lunghi e sciupati e unti, raccolti in un codino sfilacciato, e portava un pizzetto castano e impeccabile sul viso florido. Aveva le mani e le dita molto pelose, e non aveva un sassofono. Indossava pantaloni e giacca color cremisi con tanto di cravatta nera, da bravo cameriere.
Il Jack, invece, era imbacuccato in un loden verde. La faccia era quella di Jack Nicholson, la faccia ghignosa e inquietante di Jack Nicholson, completamente dipinta di bianco, le labbra ripassate di rossetto viola, quasi un organo in necrosi. I capelli c’erano tutti, neri e folti e inquietanti pure loro, a dir la verità, come se partoriti da un folle trapianto di catrame. Nel complesso, sembrava un Joker in borghese, un freak navigato e sepolto sotto un quintale di pratiche INPS, un pagliaccio un po’ immusonito, il migliore dei Jack Nicholson. All rights reserved.