Durante una tranquilla passeggiata sul lago, mi sono fermato come un ebete a osservare il movimento delle anatre.
A parte che è incredibile come riescano a solcare lo specchio dell’acqua con l’eleganza e la solidità di un veliero, mi sono accorto (non ci vuole certo l’acume di uno scienziato, eh?) che lasciano due scie divergenti dietro di sé quando si muovono in una certa direzione, mentre liberano degli anelli concentrici ogni volta che si tuffano sott’acqua.
Se ci pensiamo bene, anche noi esseri umani lasciamo dei segni al nostro passaggio. Quando camminiamo, rimangono delle impronte. Anche nella pigrizia più totale, il peso del corpo scaverà un solco più o meno grande nel nostro amatissimo divano. Ogni respiro, che lo si voglia oppure no, inquinerà l’ambiente con i nostri scarti di anidride carbonica.
Il fatto è che questi segni, dopo un po’, se ne vanno.
Le morbide geometrie che le anatre ricamano sull’acqua durano davvero pochissimi istanti. E per quanto ci riteniamo diversi, per non dire superiori al resto del regno animale, anche i nostri segni che, con tanta insistenza, con tanto sforzo, con tanta passione, cerchiamo di imprimere nel corso della vita sono destinati a dissolversi.
Certo, qualcosina, vedi le piramidi, i monumenti antichi o le incisioni rupestri, possono resistere per qualche anno, per qualche secolo, magari, ma poi? Nulla può sottrarsi alle leggi di questa intricata e incessante ragnatela di processi e trasformazioni che è l’universo.
Il desiderio di lasciare il segno, come molti sostengono di voler fare (me compreso, ci mancherebbe), sembra quasi un grido disperato e, soprattutto, impotente.
Però, potremmo fare come le anatre.
Fregarcene dei segni fragili, ma bellissimi, che lasciamo alle nostre spalle, e andare avanti a testa alta. Anche se quei segni alla fin fine non rimarranno impressi da nessuna parte, nulla ci vieta di continuare a lasciarne ancora.