I don’t like the likes

I don’t like the likes

Che tu sia maledetto, Mark Zuckerberg. Ero finalmente riuscito a disintossicarmi dallo zucchero e dalle farine raffinate, dalle bibite gassate e dai barattoloni di Nutella. E ora arrivi tu con lo zio Facebook e il suo nipote più piccolo, un tale Instagram, a rompermi le biglie (in realtà sei arrivato da mo’, ma io lo scrivo soltanto adesso. Scusa, sono un po’ pigro).

Dico io, come si fa a resistere a quella scarica di cuoricini e pollicini che ammantano come zucchero a velo le nostre bacheche virtuali? Come si fa a non lasciarsi sedurre da quei numeri così ammiccanti e procaci che appaiono come per incanto sulla barra delle notifiche? Sono una vera e propria iniezione di dopamina. Ti fanno sballare per quei dodici secondi circa, dove ti senti un po’ come Kylo Ren di Star Wars, un po’ il padrone dell’universo, insomma, e poi ne vuoi ancora, e ancora, e ancora. Non ti bastano mai. Ecco, sei passato al lato oscuro. Anche tu hai il potere, e a quel punto non accetti più limiti.

Sì, sei proprio un geniaccio, Mark. Anche perché non ci voleva molto a capire che ne avevamo un disperato bisogno. Come essere umani, non ci preoccupa più la sete o la carestia o la paura di essere impallinati da un pistolero fuorilegge. Come esseri umani, quello che più ci tormenta, oggi, è essere riconosciuti, apprezzati e approvati da altri essere umani.

Se uno di noi dovesse cambiare l’immagine del profilo e non ricevere almeno una tonnellata di like, la sua autostima verrebbe brasata all’istante. Cosa c’è che non va in me? I tagli da hipster non vanno più di moda (oh, cacchio!)? La mia duck face così elegantemente studiata assomiglia più a quella di un facocero?

Se pubblico qualcosa, qualunque cosa, se voglio condividere la mia passione morbosa per i francobolli dell’Ottocento o le foto del mio criceto mentre fa spinning, non solo pretendo che il mondo intero si fermi e mi stia da ascoltare, ma tutti quanti devono inondarmi sotto una pioggia scrosciante e incontenibile di like e condivisioni.

Che figo! Amore! TOP! Numero UNO!

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Anche perché parlare al vento, raccogliere indifferenza invece che attenzione, è la cosa più dolorosa che potrebbe succedere all’interno del proprio “club”. Fissare con aria implorante e lacrimevole lo smartphone che non ti caccia fuori neanche un cuoricino è il primo sintomo di una nuova malattia contemporanea che potremmo definire bulimia digitale. Magari è solo colpa degli spietati algoritmi di zio Facebook (e nipotino) che decidono di mettere in secondo piano o addirittura nascondere all’occhio umano i nostri generosi contributi. Magari invece sono proprio i nostri spietati follower, con la loro spietata indifferenza, a scrollare via i nostri post dai loro schermi come fossero moscerini.
Pensiamo di aver fatto un gesto nobile e di grande portata, esponendo una parte di noi stessi a persone che probabilmente non abbiamo mai incontrato, e nessuno si prende la briga di schiacciare un pulsante (tempo richiesto: un millesimo di secondo) per farci sentire accettati a coronamento del nostro piccolo, grande sforzo comunicativo. Non ci sfiora nemmeno la mente il fatto che gli altri potrebbero essere altrove, impegnati in altro o, ancora più semplicemente, non hanno il tempo materiale per seguire tutto e tutti.

La verità è che questi riconoscimenti dalla forma di icone e faccine, che arrivino oppure no, non hanno davvero nessun valore. Proprio nessuno. Qualcuno ha la malsana idea di scrivermi una lettera lunga come i “rotoloni” della pubblicità e condividere SOLO con me il suo pensiero? Questo sì che conta. Qualcuno decide di accompagnarmi durante un lungo viaggio e condividere ogni istante e ogni emozione SOLO con me? Questo sì che conta un casino.

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Le scariche di dopamina sui social servono solo a gonfiarci come palloncini. Finita la festa, e finisce presto, siamo buoni solo per scoppiare. Dovremmo imparare a rispettare il tempo degli altri. Disturbarli per qualcosa che sia più utile a loro, che a noi. Chiedere il loro tempo in cambio di qualcosa che punti a ottenere molto di più che una semplice collezione di like, applausi virtuali e abbracci “pixelosi”.

Insomma, Mark, la tua è una droga a tutti gli effetti. Per quanto mi sforzi, io non riesco a non aprire le tue applicazioni. A volte è la primissima cosa che faccio al mattino, ancor prima di sedermi sulla tazza o capire chi sono e dove mi trovo. A volte scorro i feed a caso e senza motivo, alla ricerca di una sorpresa che non c’è, alla ricerca di nuovi amici che non avrò mai il tempo di conoscere, né l’occasione di incontrare. Mi sembra sempre di essermi perso qualcosa, e alla fine, quello che ho perso, è il tempo.

Ogni volta che mi illudo di aver superato questa compulsione, ci pensi tu a farmi l’occhiolino con quelle notifiche così vibranti e seducenti, il più delle volte irresistibili. Ma non è colpa tua, in fondo. Nella vita ci sono parecchi vuoti d’aria e, come su un aereo, si avverte l’istinto di aggrapparsi ai braccioli del sedile. Anche se non serve.

I like mi piacciono sempre meno, anche se li desidero, anche se sono consapevole che, come lo zucchero, alla lunga non mi faranno granché bene. Alla fine, però, sono tutti lì (tranne i giovani, quelli no), e io non posso certo mancare. E poi, ho bisogno di reggermi agli appositi sostegni, ho bisogno di sentirmi connesso con qualcuno o qualcosa, perché il vuoto mi fa paura, e perché sono un essere umano.

E ora, metti un like. 😉

Scritto da
Gianluca Riboni
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Gianluca Riboni

Pensatore e capo tribù NAZAV, personal trainer non convenzionale, ambasciatore dello yoga e della risata, scrittore e blogger incompreso. Scrivo quello che mi passa la testa, nella speranza di lasciare un segno su questo pianeta. Sempre in Arial 11.

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